SCENARIO DAZI/ “Ora lo sfaldamento dell’Unione Europea non è più improbabile”

La complessa partita dei dazi è un grande “stress test” per tutta l’Ue. Cominciato con la sconfitta di von der Leyen, ora lo scenario è ancora peggiore (2)
La trattativa sui dazi, condotta da Trump in modo ruvido e realista, ha spalancato agli occhi dell’UE una prospettiva, quella dell’interesse nazionale, incompatibile con l’approccio di Bruxelles. I limiti strutturali dell’architettura europea e la pochezza dei suoi rappresentanti hanno fatto il resto.
Con Agustín Menendez abbiamo visto nella prima parte di questa intervista le logiche che ispirano l’agire di Trump. In questa seconda parte tocca all’Europa.
“Lo scenario dello sfaldamento dell’UE non è più impossibile, e neppure improbabile”, afferma il giurista.
Veniamo ora alla sconfitta dell’Europa nella trattativa. Quali potrebbero essere le ripercussioni?
Gli europeisti “naïf” ripetono da mesi il ritornello secondo il quale l’Europa dà il suo meglio nelle crisi. E quindi la tripla sfida militare, economica e politica rappresentata dalla seconda amministrazione Trump sarebbe in realtà un’occasione per un “salto in avanti”. Questa prognosi sembra fondata su una ipotetica legge storica di matrice hegeliana; peccato non corrisponda ai fatti, né passati né presenti.
Ma le crisi, si ripete all’infinito, non sono un’occasione di rinnovamento?
Solo se si hanno idee su dove andare e i mezzi per farlo. Ma la classe dirigente europea, sovranazionale e nazionale, non ha un vero progetto. Non lo aveva nel 2010, non ce l’ha adesso.
La sconfitta di von der Leyen, di cui attendiamo sviluppi, si può vedere in diversi modi. Il suo qual è?
Come ho già detto più volte, la classe dirigente europea ha sviluppato una pulsione suicida. L’esito del summit in Scozia ci ha offerto l’ennesima conferma. I discorsi sulla “sovranità strategica” si sono dimostrati aria fritta, infatti alla dipendenza energetica dalla Russia seguirà la dipendenza energetica dagli USA. Visto che gli americani ci faranno pagare il gas e il petrolio molto di più dei russi, questa decisione si può spiegare soltanto come il “dazio” da pagare per avere la garanzia militare americana.

Vuol dire né sovranità energetica, né sovranità militare.
Esatto. Si potrebbe argomentare che questa è una scelta infelice, ma l’unica possibile, perché la sovranità non si può raggiungere subito: teoricamente l’avremo nel 2030, non prima. Ma se allo stesso tempo accettiamo di incanalare 600 miliardi di investimenti europei verso gli USA, nel momento in cui dovremo riconvertire le nostre strutture produttive come risultato dei dazi americani che accettiamo senza ritorsioni, che margine finanziario reale rimane per pagare gli investimenti necessari a diventare “sovrani”?
E tutti quelli che attaccano von der Leyen per la sua incapacità negoziale?
Hanno scoperto il Mediterraneo e l’acqua calda in un colpo solo. È uno di quei rari e fugaci momenti nei quali il grado di confusione degli opinionisti mainstream è totale. L’accordo è così palesemente contrario non soltanto alla retorica ufficiale – la “sovranità strategica” – ma anche agli interessi dei “poteri forti”, che per la prima volta abbiamo letto nei media “benpensanti” delle vere critiche alla Commissione. È interessante che questo sia successo adesso.
Che cosa intende dire?
Ci sono altre situazioni che lo meritavano e lo meritano tuttora. E non sono meno gravi del negoziato sui dazi.
Ad esempio?
Quando il gasdotto Nord Stream è stato fatto saltare, le autorità europee e tedesche non hanno reagito, se non sostenendo teorie assurde sugli autori dell’attentato. Quando la guardia costiera greca affondò la Pylos (14 giugno 2023, nda), per von der Leyen il primo ministro greco rimase il grande campione della difesa delle nostre frontiere. Per non parlare dell’incapacità immorale e criminale delle autorità europee davanti al fatto morale decisivo del nostro tempo, il genocidio “in streaming” a Gaza.
Nel merito, da cosa dipende l’incapacità negoziale di Bruxelles?
Ci sono due dimensioni del problema. In termini congiunturali, abbiamo una classe dirigente scarsa, in grande misura risultato della sparizione dei partiti politici.
Un nome?
Rutte è la figura paradigmatica di questo degrado. Ancora più determinanti, però, sono i fattori strutturali.
Quali sono?
Il processo di decisione europeo è totalmente disfunzionale. Siamo condannati a una patologia acuta della “joint decision trap”. Che porta prima a ignorare i problemi, poi a confondere l’accordo tra i leader con una “buona” decisione, e infine a soluzioni emergenziali. La loro qualità dipende da quella della classe politica, che, come detto, è scarsa.
Per superare questo status quo, qualcuno propone di accentrare ancora di più i poteri nella Commissione o nel Consiglio europeo.
Non serve. Quelli che ci raccomandano questa soluzione, e molto spesso sono scienziati politici americani, dimenticano che a lungo termine questo accentramento non può funzionare senza legittimazione democratica.
A proposito di disfunzionalità europee. Il ministro delle Finanze tedesco Klingbeil è andato a Washington a negoziare condizioni migliori per l’industria. Quella tedesca, ovviamente. Che ne pensa?
La notizia è rilevante per tre motivi. Il primo è l’estrema fragilità del modello economico tedesco, basato su un’economia trainata dalle esportazioni. È il modello che Berlino ha imposto al resto dell’UE dopo il 2010. È fragile perché dipende dalla volontà degli altri Paesi di accettare un deficit costante.
C’è un’evidente doppia morale politica e istituzionale.
È il secondo motivo di interesse. I tedeschi sono costretti a ripudiare esplicitamente il principio, altre volte ritenuto sacrosanto, della competenza esclusiva della Commissione in materia commerciale. È la conferma che la politica estera tedesca “post-unificazione” considera l’UE non come un fine che la Germania deve raggiungere per difendere i suoi interessi, ma come un semplice mezzo, e come tale sostituibile.
Terzo motivo?
L’ipocrisia con la quale i governi tedeschi nei giorni pari sono campioni della “rule of law”, dello stato di diritto, e nei giorni dispari infrangono palesemente le regole comuni. La vicenda del freno al debito parla da sola.
Da tutte queste contraddizioni qualcuno trae la conclusione che “l’Unione Europea non c’è più”. Non le sembra un grosso equivoco? Viceversa, se l’UE c’è ancora, come si configura esattamente?
I concetti chiave per capire cosa sta succedendo sono quelli dell’“ambivalenza” e della “mutazione”. Dalla sua creazione, le Comunità europee sono state ambivalenti, frutto di diversi progetti con visioni molto diverse, non ultimo quello dei newdealers americani, ancora decisivi nella definizione della politica estera USA nell’immediato dopoguerra. Negli anni 60 e 70, tutto sommato, hanno prevalso le forze democristiane e socialdemocratiche europee, con un tocco gaullista, e questo ha contribuito a che le Comunità rafforzassero gli Stati democratici e gli stati sociali nazionali.
E poi?
A partire dalla fine degli anni 70, gli ordoliberisti, in “coalizione” con i neoliberali, sono riusciti non solo a riscrivere i trattati – si pensi a Maastricht – ma anche a influire in modo decisivo sulle policies, vedi la Commissione europea, e sulle decisioni giudiziali, vedi la Corte di giustizia. In questo modo l’UE si è trasformata nel vincolo esterno. Il processo si è accelerato con la crisi del 2010 e con il Covid-19. Senza questi passaggi non si capisce la vera novità del Quadro finanziario pluriennale 2028-34, il bilancio a lungo termine presentato trionfalmente da von der Leyen. Il bilancio si “automatizza”, diventa. strumento inter-governamentale, e il trasferimento di denari si trasforma in modo permanente nella leva con cui la Commissione può “formattare” le scelte di politica economica dei singoli Stati. Tutto questo senza che la Commissione abbia una nuova e solida fonte di legittimità democratica.
Come si potrebbe definire questo mega-meccanismo istituzionale?
Sicuramente non è l’Europa di Ventotene, e nemmeno l’Europa di de Gaulle. È un’Europa che acquisisce ogni giorno di più i tratti di un autoritarismo liberista.
E questo meccanismo autoritario, sotto lo “stress test” dei dazi, cosa potrebbe riservarci?
Non sono un futurologo, ma lo scenario dello sfaldamento dell’UE non è più impossibile, e neppure improbabile. Gli stessi attori che denunciano le manovre dell’amministrazione Trump contro l’Europa fanno la coda alla porta di servizio di Mar-a-Lago per avere qualche vantaggio “bilaterale”. Merz e Meloni in primis. È molto difficile immaginare che l’UE realmente esistente possa essere ricondotta al ruolo di sostegno dello Stato democratico e sociale. Se la maggioranza della popolazione europea si convince che le cose stanno così, l’UE non durerà.
Non sarebbe una liberazione?
Il rischio potrebbe essere quello di buttare non soltanto l’acqua sporca, ma anche il bambino. (2 – fine)
(Federico Ferraù)
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